Priscilla Carozzi aveva una famiglia orribile.
Suo papà aveva testa e cuore solo per i propri affari strampalati e mostrava sincero affetto soltanto verso l’unica persona che amava davvero: se stesso. Sua mamma non era poi così male, se non fosse che aveva completamente disimparato a pensare con la sua testa, dopo il trattamento ricevuto dal marito nonchè padre di Priscilla: semplicemente non sapeva come si faceva, a dimostrare l’amore. Suo fratello era l’epitome dell’egoismo umano: non era cattivo, piuttosto il suo mondo iniziava e finiva con il benessere della sua propria persona.
Priscilla quindi era cresciuta da sola, come un albero nato in un bosco. Non che le fossero mancati il cibo nel piatto o i vestiti per coprirsi o un tetto sopra la testa, questo no: era la considerazione, quella che non aveva avuto. Ti piace questo vestito, lo vorresti indossare? Ecco una domanda che avrebbe dimostrato considerazione. Sei proprio brava a scrivere, non vorresti farne una professione? Ecco un’altra domanda notevole che Priscilla avrebbe tanto voluto che le fosse stata rivolta, a posteriori. Il guaio, pensava Priscilla, era dover imparare così tanto da sè stessi e sulla propria pelle, oppure dai libri: a volte l’esperienza si rivelava scoraggiante. Perchè una volta scoperta una verità emozionante, era troppo tardi per riviverla: il momento era passato e lei non aveva saputo reagire appropriatamente per mancanza di informazioni.
Qualcuno al quale poter parlare senza essere giudicata. Qualcuno che la ascoltasse senza lo sguardo calcolatore di chi sta già assaporando quale pezzetto di lei pretendere in cambio di una parola distratta, un sorriso anche falso, un abbraccio insincero.
Ecco, l’ascolto: un’altra mancanza fondamentale.
“C’è un errore a pagina quarantatre, quarta riga partendo dal margine inferiore, una A anzichè una O, la parola corretta è cappello” Una cappella al posto di un cappello, i poveri bambini non ne avrebbero mai colto l’ironia. Continua a leggere